08 agosto 2011

Le origini della crisi economica: la politica monetaria e i mutui subprime



"Gli speculatori possono essere innocui, se sono delle bolle sopra un flusso regolare di intraprese economiche; ma la situazione è seria, se le imprese diventano una bolla sospesa sopra un vortice di speculazioni. Quando l'accumulazione di capitale di un paese diventa il sottoprodotto delle attività di un Casinò, è altamente probabile che le cose vadano male." (John Maynard Keynes)

DESCRIVERE I PROCESSI DEL SISTEMA ECONOMICO di “libero mercato” sembra essere ancora oggi necessario, per acquisire la consapevolezza delle potenzialità destabilizzanti delle politiche economiche interventiste, seguite dalla maggior parte dei paesi cosiddetti “capitalisti”. Sarà pertanto opportuno, attraverso un’analisi logico-deduttiva, descrivere i processi attraverso i quali il fenomeno dell'incontrollata espansione creditizia e quello dell'opportunistica adesione, da parte degli economisti e dei policy maker, al fallace paradigma keynesiano siano alla base di gravi effetti distorsivi sull'economia reale; sulla struttura produttiva, sociale e, in ultima analisi, sulla creazione di ricchezza in seno alla società. 
Uno degli argomenti tralasciati, a torto, nelle analisi delle cause dell'attuale crisi economica è quello del processo di formazione del risparmio e degli investimenti, e quello della re-distribuzione dei redditi. L'obiettivo che intendo raggiungere, è quello di collocare più compiutamente le “cause” e gli “effetti” della crisi. 
Affermare semplicisticamente che la crisi abbia “natura” finanziaria implica che anche il rimedio debba esserlo. Risulta evidente che il successo del “rimedio” dipenderà dalla corretta sistemazione concettuale delle “cause” che hanno determinato gli “squilibri” economici.

L’attuale “crisi inflazionistica” ha rivelato brutalmente come la separazione teorica e concettuale della scienza economica in “micro” e “macro” economia, che fin dagli anni trenta ha fornito il supporto teorico all’interventismo, sia tragicamente e fatalmente inesatta. Fin dai tempi degli economisti classici, la teoria monetaria è sempre stata trattata separatamente rispetto alle analisi concernenti il resto del sistema economico.      
Seguendo le indicazioni del sistema “scientifico” di equazioni simultanee e grafici a disposizione del policy maker, il Governo e le Banche centrali disporrebbero degli strumenti necessari (la politica fiscale e quella monetaria) per abolire facilmente l’inflazione e la recessione. Disporrebbero, cioè, degli strumenti utili a stabilizzare il sistema economico.
Quando l’economia scivola in recessione, al governo non resta che intervenire con opportune politiche fiscali (espansione della spesa) e monetarie (espansione della massa monetaria). Le politiche contrarie andrebbero adottate quando l’economia diventa “inflazionistica”. Cosa fare quando l’economia soffre nello stesso tempo di inflazione e depressione? La teoria “convenzionale” non è in grado di affrontare coerentemente la questione, salvo tentare la costruzione di apposite teorie parziali da un insieme di dati statistici.
Ora, nonostante tassi di interesse reali prossimi allo zero (in alcuni casi negativi), dopo due imponenti manovre di “quantitative easing” (creazione di moneta da parte della Banca Centrale e immissione nel sistema economico attraverso operazioni di acquisto titoli) portate a termine negli Stati Uniti, due nel Regno Unito e quelle Giapponesi, le condizioni del sistema economico non sembrano per niente migliorare. Sembra che il sistema economico si trovi nella “trappola della liquidità” (crisi di fiducia che neutralizza l'influenza della politica monetaria sull'economia reale) teorizzata da Keynes. Seguendo, in linea di principio, gli indirizzi di politica economica di Keynes, questa sarebbe la condizione “ideale” (da manuale, sarebbe anche l'unica) per un massiccio intervento pubblico attraverso politiche fiscali espansive: riduzione del carico fiscale e incremento della spesa pubblica. Ma, a causa dell'insostenibile livello raggiunto dal debito pubblico, tutti i paesi sono (finalmente) impegnati-obbligati in drastiche riduzioni della spesa pubblica, nella riduzione del debito pubblico stesso, e nell'aumento del carico fiscale. Esattamente il contrario di quanto Keynes prescriverebbe. Resta, pertanto, la sola leva monetaria. Dal canto loro, le Banche centrali, negli Stati Uniti e in Europa, hanno già annunciato ulteriori interventi di espansione monetaria. Un paradosso condiviso e sostenuto da tutti: economisti con tanto di premio nobel in bacheca, ministri delle finanze, partiti politici di ogni colore e, naturalmente, i Banchieri centrali. Da più parti, ormai, persa completamente la fiducia nell’economia di mercato, arrivano richieste di un radicale cambiamento in direzione di un’economia collettivizzata.
Lo stato delle cose è, però, insolubile se la teoria economica dominante continua a scambiare le cause con gli effetti. Alla domanda: “da cosa ha origine la crisi?”, la risposta più frequente è: dai mutui subprime. Risposta corretta ma incompleta.

“La teoria è quando si sa tutto e niente funziona. La pratica è quando tutto funziona e nessuno sa il perché. Noi abbiamo messo insieme la teoria e la pratica: non c'è niente che funzioni... e nessuno sa il perché!” (Albert Einstein.)


Il risparmio e l’investimento sono indissolubilmente legati. Non è possibile incoraggiare l’uno e disincentivare l’altro. Entrambi sono determinati dalle preferenze “temporali” degli individui, ed è l’intensità delle preferenze temporali a determinare il tasso di interesse. Il tasso di interesse è, contrariamente a quanto sostenuto dalla teoria predominante, un fenomeno reale nonostante i cambiamenti nell’offerta di moneta possano “indirettamente” influenzarne il livello, attraverso la distorsione delle preferenze temporali stesse. Porre la gestione dell’offerta di moneta all’autorità pubblica, rende il tasso di interesse un mero fenomeno “politico”. Non “tecnico. Evidentemente, solo se davvero le Banche centrali si limitassero a “registrare” quello che avviene sui mercati, la loro influenza sarebbe di natura “tecnica”; ma contemporaneamente sarebbe inutile. Stabilendo un “prezzo” diverso da quello che si determinerebbe in assenza del loro intervento, esse svolgono una funzione politica.
Il ricorso e l'espansione di denaro fiduciario (la cui quantità può essere aumentata a piacimento e a bassissimo costo) “illude” tutti i soggetti economici, inclusi i regolatori del mercato finanziario. Si è, cioè, erroneamente portati a ritenere che nel sistema economico vi siano risorse disponibili (una “ricchezza”) maggiori rispetto a quelle effettivamente esistenti. Distratti da questa illusione, tutti gli agenti economici, compresi i governi, intraprendono piani e programmi non sostenibili. 
L'espansione monetaria si prefigge di raggiungere obiettivi, che si scontrano con alcune leggi economiche in grado da agire come vere e proprie barriere insormontabili. Si tratta delle leggi che governano la natura umana. Nel mercato agiscono uomini, e l'uomo è per definizione un essere sociale. L'economia, come detto, è una scienza sociale, non naturale.  Non è riconducibile a complessi modelli econometrici che pretendono di formulare “previsioni” sul comportamento di una società per il tramite di algoritmi matematici, o ricondurre i processi decisionali all'interno di schemi di presunta “razionalità” uguale per tutti i partecipanti. Ignorare quest'evidenza può condurre a conseguenze estremamente gravi.
Collocare opportunamente le “cause” e gli “effetti” della crisi, richiede l'analisi del processo che conduce all'illusione cui abbiamo fatto cenno, ossia, delle modalità con le quali la “creazione di moneta” produce effetti distorsivi nella redistribuzione del reddito e nell'allocazione del capitale


Ogni partecipante al mercato è dotato di un’innata capacità imprenditoriale, nel senso che ognuno è in grado di individuare, scoprire o creare opportunità che apportino un beneficio economico. Nel prendere decisioni economiche, l'individuo, dovrà necessariamente tener conto dell'incertezza che caratterizza il futuro e, pertanto, ricorrere a stime e congetture che formulerà tenuto conto delle sue aspettative.
In questo processo il denaro non è “neutrale”. Esso è un bene economico soggetto a tutte le leggi dell'economia, come lo sono tutti gli altri beni economici. Cominciamo, quindi, con l’analisi della domanda e dell’offerta del denaro.
L'offerta di moneta (ossia la quantità di moneta in circolazione in un certo momento) è regolata dalle Banche centrali.
La formazione della domanda di moneta, e quindi la variazione nel livello generale dei prezzi, richiede qualche approfondimento in merito alle modalità di formazione del risparmio, dell’investimento e dei tassi di interesse.
Consideriamo le alternative a disposizione di un individuo nell’allocazione del proprio reddito monetario. Essenzialmente esse sono tre: 1) destinare il denaro al consumo (consumo presente); 2) destinare il denaro all’investimento (consumo futuro o risparmio); 3) variare i propri saldi liquidi (domanda di moneta). 
Posto che l’allocazione del reddito nei tre differenti canali è decisa da ogni individuo in un unico momento, la preferenza temporale di ogni attore economico (ossia il grado di intensità con il quale preferisce le soddisfazioni presenti rispetto a quelle future) determina la ripartizione dei suoi attivi monetari tra consumo e investimento. Minore è la sua preferenza (soddisfazione) temporale rispetto al presente, maggiore sarà la proporzione degli investimenti (risparmio) rispetto al consumo e minore sarà il tasso di interesse “puro”.
I tassi di interesse di mercato, rifletteranno il tasso “puro” di interesse (determinato dalle preferenze temporali) cui aggiungere le componenti legate al rischio imprenditoriale (connesso alle caratteristiche del debitore) e quelle legate al potere d’acquisto della moneta.
La variazione dei saldi liquidi (domanda di moneta) dipenderà, invece, dall’utilità marginale della moneta di ogni individuo. L’offerta di beni è una componente della domanda di moneta. Essendo l’offerta di moneta data dalla quantità di moneta esistente nella società, l’aumento dell’offerta di beni porterà, a parità di condizioni, a un aumento della domanda di moneta (che determinerà un aumento del potere d’acquisto della stessa) e, quindi, a una riduzione del livello dei prezzi. Finché la domanda di moneta supera la quantità di denaro esistente, il potere d’acquisto della moneta aumenterà fino a riequilibrare l’eccesso nel mercato. Viceversa, un’offerta di moneta superiore alla domanda diminuirà il potere d’acquisto e, quindi aumenterà il livello dei prezzi, finché l’offerta non sarà più in eccesso.
Come abbiamo già avuto modo di vedere, l'espansione artificiale del credito, generata dall'espansione monetaria e dall'attività bancaria, provoca nel sistema economico “reale” gli stessi effetti che si realizzerebbero nel caso di un aumento del livello di risparmio.
Il tasso di interesse diminuisce e gli imprenditori sono indotti a investire in processi produttivi più distanti dal consumo ritenendo che nel futuro vi saranno le risorse necessarie (i risparmi) a sostenere la domanda. L’aumento dell’offerta di moneta, dal canto suo, determina l’aumento del livello dei prezzi.
A causa del tempo necessario, affinché la moneta di nuova creazione giunga a tutti gi operatori di mercato, gli effetti dell'iniezione di queste dosi addizionali di credito (la diminuzione del potere d'acquisto), non si realizzano uniformemente a “favore” di tutti gli operatori del mercato.
I primi destinatari del nuovo denaro iniettato nel sistema, godono di benefici a scapito di coloro che ricevono il denaro solo in seguito, attraverso il processo di mercato, o che non lo ricevono affatto (ad esempio, i pensionati che vivono di ricchezza accumulata). 
I primi a ricevere denaro, infatti, potranno acquistare beni/servizi a prezzi più bassi, prezzi che ancora non riflettono la caduta del potere d’acquisto della moneta. Gli ultimi ricevitori saranno costretti a pagare gli stessi beni/servizi a prezzi, che nel frattempo sono cresciuti. I primi prenditori potranno pertanto realizzare dei guadagni, senza realizzare alcuna attività produttiva, semplicemente perché potranno rivendere, a prezzi più alti, gli stessi beni/servizi acquistati prima che l’effetto dell’offerta monetaria si sia scaricato sui prezzi. Il danno maggiore sarà subito, pertanto, dagli operatori economici che ottengono un beneficio da un potere d'acquisto costante o crescente: i percettori di un reddito fisso. Questo processo prende il nome di ”redistribuzione del reddito”. E’ evidente che la direzione del processo di redistribuzione inflazionistico (dovuto all’aumento della massa monetaria a seguito dell’espansione del credito bancario), va dai soggetti più lontani dal processo di creazione monetaria a quelli più vicini, contribuendo e alimentando l’allargamento del divario della distribuzione della ricchezza nella popolazione.
Allo stesso modo risulta evidente, come il necessario ed inevitabile processo deflazionistico (arresto e successiva contrazione della massa monetaria), successivo ad ogni boom,  non solo fa contrarre il credito velocizzando la ripresa e neutralizzando le distorsioni del boom stesso, ma anche, in un senso più ampio, porta via da coloro che originalmente guadagnavano con la coercizione, per dare benefici a coloro che originalmente erano costretti a perdere. Ciò non sarà vero per certo caso per caso ma, in senso più ampio, gli stessi gruppi avranno benefici e perdite, e questa volta in modo invertito da quello degli effetti redistributivi dell'espansione del credito.

Il danno maggiore, tuttavia, avviene nella struttura produttiva. L'immissione di denaro "virtuale" e l'espansione del credito danneggiano la futura capacità produttiva del sistema economico, ponendo le basi per la formazione delle crisi economiche e, quindi, delle successive depressioni. Nell'erronea convinzione che l'economia possa essere stimolata da una quantità di denaro sempre maggiore, le banche centrali tendono a ridurre "forzatamente" il tasso di interesse al di sotto del tasso di mercato. Il risultato finale è che il capitale che viene impiegato in alcune linee di produzione, soprattutto negli investimenti a lungo termine, non è allocato proficuamente. 
Il falso segnale che il "tasso di interesse artificiale" fissato dalle banche centrali dà, è che esistano nuove risorse reali per poter effettuare investimenti a più lungo termine, per poter intraprendere nuovi progetti di espansione della struttura produttiva, in vista del maggior consumo futuro. In realtà queste risorse, necessarie per un completamento redditizio di tutti i nuovi progetti, non esistono! Quando l’espansione monetaria cessa, o rallenta, esplode la crisi.
Per comprenderne il meccanismo, ancora una volta, concentreremo la nostra analisi sull’individuo, in altre parole sulle azioni individuali che di volta in volta spingono a scelte economiche, basate sulle preferenze.
Variazioni nel livello del risparmio (la volontà di posticipare nel futuro il consumo che sarebbe possibile oggi) implicano variazioni delle aspettative in seno alle diverse fasi del processo produttivo globale. Dovremo, quindi analizzare in che modo si realizza il processo dell'allocazione del capitale, nelle varie "fasi" del processo produttivo in un’economia di “libero mercato”, e delle modalità con le quali la gestione accentrata della moneta ne distorce lo svolgimento.
In un mercato libero da interferenze, un aumento nel livello del risparmio, ha un effetto "immediato" sugli agenti economici che operano nel mercato dei "beni di consumo". Le decisioni di risparmio si traducono in una diminuzione della domanda. I prezzi dei beni di consumo tendono a diminuire.
Le imprese, nella formazione delle decisioni di investimento, sono guidate dalle informazioni e dai segnali trasmessi dalla struttura di prezzi relativi, ossia dalle analisi dei prezzi comparati tra beni di diverso tipo. Risulta evidente che se i prezzi dei beni di consumo decrescono in termini relativi, converrà produrre altri beni che non hanno ancora subito variazioni: i "beni capitale" (beni utilizzati come strumenti, con il concorso di altri beni ed in un tempo successivo, nella produzione di beni di consumo).
Le decisioni delle imprese operanti nel mercato dei beni capitale, non sono influenzate dalle fluttuazioni della domanda e del prezzo dei beni di consumo nell'immediato, ma dalla stima dei prezzi che i beni di consumo avranno nel futuro. Se la stima dei prezzi "futuri" dei beni di consumo rimane invariata, la variazione attuale dei prezzi dei beni di consumo (nel nostro caso la diminuzione) fornisce l'indicazione di impiegare i capitali verso la produzione dei beni che si collocano nella fase più lontana dal consumo. A ciò si aggiunge il cosiddetto effetto Ricardo. La diminuzione dei prezzi dei beni di consumo comporta, per i lavoratori a retribuzioni costanti, un aumento del potere di acquisto. Ossia i salari in termini reali (rapporto tra salario nominale e tasso di inflazione) crescono. A causa della riduzione della domanda e del contestuale aumento dei salari reali, l'impresa sarà indotta a ridurre la forza lavoro per sostituirla proporzionalmente con beni capitale, in modo da non perdere produttività. Ma l'aumento della domanda di beni capitale, derivante dal processo di sostituzione con i lavoratori, assorbirà le risorse liberate dall'industria dei beni di consumo. Il prezzo del fattore lavoro non subisce variazioni nella misura in cui la domanda dell'industria dei beni capitale si equilibra con l'offerta delle risorse liberate dall'industria di quelli di consumo.
L'aumento del livello di risparmio fa si che il livello del tasso di interesse (di mercato) si riduca. L'aumento della propensione al risparmio, infatti, implica una maggiore disponibilità ad "accettare" una minore remunerazione per quanto depositato. Infine, la caduta del tasso di interesse a seguito di un aumento del risparmio, fa aumentare il valore dei beni capitale. (il valore dei beni capitale è pari al valore attuale dei flussi finanziari futuri).
Nella misura in cui l'aumento del risparmio si traduce in un aumento degli stadi di produzione lontani dal consumo, quindi a maggior intensità di capitale, il processo assicura un'economia caratterizzata da una forza lavoro più produttiva, in grado di assicurare maggiori sbocchi occupazionali e con salari maggiori in termini reali. 
Quando l'avvio del processo appena descritto non è determinato dall'aumento del risparmio reale (ciò che resta dal reddito prodotto), ma da un processo di espansione creditizia generato dal sistema bancario, in una prima fase si realizzano gli effetti che abbiamo descritto. Tuttavia, nella fase "euforica", l'illusione della prosperità del sistema, induce gli operatori impegnati nelle aree più remunerative, ad indebitarsi. In sostanza più ci s’indebita e s’investe nel settore favorevole più profitti si riesce a generare. Poiché l'economia sembra solida e le finanze dei debitori sembrano essere in buona salute, anche le banche sono meno restie a concedere prestiti. Col passare del tempo i debiti si accumulano ed iniziano ad aumentare più velocemente dei profitti con i quali i debitori intendono ripagarli. Si arriva quindi ad un punto di non ritorno. La ricerca del profitto "sempre più alto" e "ad ogni costo" dirige quindi i risparmi verso investimenti ad elevato rischio, e che offrono un alto rendimento potenziale.
In un "ipotetico" libero mercato del credito, il tasso di interesse naturale rappresenterebbe le preferenze temporali degli attori economici coinvolti ed ovviamente una valutazione del fattore di rischio. Quando il tasso è "artificialmente" basso, perché fissato da un ente esterno, con ogni probabilità la circostanza induce, tenuto conto del basso rendimento della liquidità e dei titoli "relativamente" sicuri, ad aumentare i consumi a scapito dei risparmi. Allo stesso modo, nel caso degli investimenti immobiliari, il livello del tasso diventa un buon incentivo all'indebitamento. In altre parole, una politica monetaria espansiva cambia "temporaneamente" le preferenze temporali dei consumatori e le orienta verso un consumo anticipato, spesso finanziato attraverso il ricorso al credito: è il cosiddetto consumismo.
Quanto agli investimenti, l'aumento del credito a disposizione, segnala alle imprese che i consumatori stanno risparmiando e che quindi saranno propensi ad aumentare i loro consumi in futuro: vi è quindi spazio per aumentare la produzione. 
Inoltre un tasso di interesse basso rende appetibile tutta una serie di investimenti che, ad un tasso più alto, erano considerati svantaggiosi o rischiosi. In estrema sintesi non solo il credito è ampliato oltre i limiti del risparmio ma, il basso livello dei tassi, indirizza il credito verso attività rischiose, speculative.
Il ruolo chiave in questo processo è, ancora una volta, svolto dalle banche che ricevono la moneta, creata dalla Banca centrale, ad un costo irrisorio e la "moltiplicano" attraverso il meccanismo della riserva frazionaria. L'espansione monetaria, inoltre, favorisce la nascita di intermediari finanziari con minori capacità di valutazione del rischio. Gli interventi di salvataggio pubblici (o la "legale" partecipazione del pubblico dei risparmiatori alle perdite generate dalle attività speculative, vedi caso Parmalat) legittimano, nella sostanza, il cosiddetto moral hazard
A peggiorare la situazione è l'andamento dei mercati finanziari che, nelle fasi espansive, considerato il basso rendimento offerto dagli investimenti legati ai tassi di interesse, incentiva molti risparmiatori a comprare azioni. 
In breve, il risultato di una politica monetaria espansiva è quello di aumentare artificialmente i consumi (finanziati da debiti) e l'inflazione; fornisce una distorta percezione delle preferenze temporali; spinge gli imprenditori ad aumentare la produzione e dirottare il risparmio reale verso attività rischiose e fallimentari.
Nella prima fase di espansione, l'inflazione generata dall'aumento della quantità di moneta, si scarica sopratutto sulle attività finanziarie e sugli investimenti immobiliari. E questi investimenti non compaiono nei panieri che gli istituti di statistica costruiscono per misurare l'inflazione. Più contenuto è, invece, l'aumento dei prezzi dei beni di consumo. La percezione dello stato di salute, fornita dagli indicatori numerici del tasso di inflazione, è quindi di prosperità.
Ma con l'andare del tempo anche i prezzi dei beni di consumo cominciano a salire, inevitabilmente, in maniera più marcata creando serie difficoltà, sopratutto agli agenti economici a reddito fisso e basso.
A questo punto la Banca Centrale può: a) continuare a inflazionare la moneta; b) allentare la politica monetaria espansionistica e causare lo scoppio delle bolle speculative.
Il processo che conduce al "fallimento" del mercato sono opposti rispetto a quelli che sarebbero derivati da un'espansione monetaria derivata da un reale aumento dei risparmi. La maggior domanda di fattori produttivi (indotta dall'accesso "facile", ampio e a costi ridotti al credito, oltre che dalla distorta percezione della preferenza temporale dei consumi) non è bilanciata da maggiori risorse liberate in altri fasi del processo produttivo globale. L'eccesso di domanda genera l'aumento dei prezzi. (basti pensare all'andamento ciclico dei prezzi delle materie prime, delle commodities, del petrolio ecc)
Quando il nuovo danaro arriva nello stadio successivo, il pubblico è indotto dall'aumento nominale delle disponibilità (anche in questo caso favorito dall'accesso al credito), ad aumentare la domanda di beni di consumo, con il conseguente aumento dei prezzi che si somma a quello derivato dall'aumento dei costi di produzione.
I prezzi dei beni di consumo crescono, relativamente, di più dei prezzi dei beni capitale. L'indicazione per la classe imprenditoriale è inversa a quella che sarebbe scaturita nel caso di un aumento del livello di risparmio. Ossia risulta più conveniente produrre beni di consumo. Anche l'effetto Ricardo agisce nel senso opposto al caso di un aumento dei risparmi. L'aumento dei prezzi dei beni di consumo comporta, per i lavoratori a retribuzioni costanti, una diminuzione del potere di acquisto. Ossia i salari in termini reali (rapporto tra salario nominale e tasso di inflazione) decrescono. A causa della diminuzione dei salari reali, e dell'aumento relativo dei prezzi dei beni di consumo, l'impresa sarà indotta ad aumentare la forza lavoro a scapito dell'acquisto (investimenti) di beni capitale. Il crollo della domanda nel settore dei beni capitale, produce il calo della produzione e dell'occupazione.
I tassi di interesse sui crediti tenderanno a crescere ad un livello superiore a quello prima dell'espansione creditizia. Il tasso di interesse include tre componenti: 1) La componente naturale delle preferenze temporali del soggetto che posticipa il consumo; 2) Il premio sul rischio di insolvenza del debitore; 3) Il premio contro la perdita di potere di acquisto della moneta.
L'aumento dei prezzi nominali spinge, inevitabilmente, all'aumento tutte e tre le componenti del tasso. 
Se il valore dei beni capitale (come gli immobili) è dato dal valore attuale dei flussi finanziari futuri, l'aumento dei tassi agisce diminuendone il valore.  
L'effetto combinato di questi effetti, con la riduzione della profittabilità relativa del settore a monte del processo produttivo globale, l'industria dei beni capitale (di dimensioni e peso relativo superiore a quella più prossima al consumo) produce pensanti perdite in queste imprese diffondendo rapidamente aspettative pessimistiche, che evidenziano i gravi errori imprenditoriali commessi, così come la necessità di riconversione, procedendo al blocco e, in seguito alla liquidazione dei progetti di investimento erroneamente intrapresi, ritirando risorse produttive dagli stadi più lontani dal consumo per trasferirle di nuovo a quelle più vicini allo stesso. 

La crisi dei "mutui subprime"[1] rappresenta un caso esemplare di bolla speculativa generato dalla manipolazione dei processi di mercato, che abbiamo sin qui descritto. Nell'aggravare la diffusione del collasso all'intero sistema finanziario mondiale, ha avuto un ruolo decisivo la cosiddetta "finanza creativa".
Vediamo di che si tratta.
Le speciali condizioni create dalla politica monetaria hanno spinto le famiglie, specie quelle con redditi fissi e medio - bassi che sentivano maggiore il "bisogno" di case, a valutare la “convenienza” nell’indebitarsi a lungo termine per l’acquisto della casa, opportunamente incentivati da mutui a tassi di interesse decrescenti.
Il ruolo di "supporto" affidato (inevitabilmente) alla finanza, fu quello di sostenere in modo artificiale le capacità di spesa delle famiglie, per consentire loro di integrare la spesa basata sul reddito corrente, con spesa basata sul debito.
I mutui subprime sono prestiti a lunga scadenza concessi a fronte dell'acquisto di immobili e garantiti da ipoteca. Il termine subprime (di ultima categoria) indica l'elevato livello del rischio del debitore (tipicamente famiglie a reddito basso). La garanzia rappresentata dall'immobile, in periodi costante crescita dei prezzi del mercato immobiliare, "giustificava" l'operazione anche agli occhi delle agenzie di rating. (società specializzate nella valutazione dei rischi di titoli, imprese ecc).
Le banche, tipicamente "specializzate" nel controllo del rischio, hanno cercato di tutelarsi dal rischio di insolvenza trasferendolo ad altre banche, istituzioni e fondi attraverso operazioni di cartolarizzazione usando i “derivati”. La cartolarizzazione consiste nell’impacchettare questi crediti rischiosi, insieme ad altri con livelli di rischiosità "normale" e vendendoli (nella forma della nuova attività finanziaria) ad altri intermediari. Questi a loro volta hanno nuovamente impacchettato queste attività con altre (creando nuove attività finanziarie) e così via, anche fino a tre o quattro passaggi.
Il meccanismo, di per sé finanziariamente corretto, consente di suddividere a cascata, tra vari soggetti finanziari, i rischi che altrimenti, gravando su una banca sola, avrebbero impedito l'accesso al credito delle famiglie meno solventi.
Le agenzie di rating e tutti i soggetti coinvolti in questo processo, hanno a lungo sostenuto l'inesistenza del rischio, considerato l'andamento crescente del prezzo delle case negli Stati Uniti. L’indice del prezzo delle case, che si era sempre mantenuto intorno al medesimo livello, intorno al 2001 aveva cominciato a crescere ad un ritmo mai visto dalla fine della guerra. Non solo, ma la crescita non si era affatto arrestata dopo il tipico ciclo quinquennale. La crescita dei prezzi delle case rispondeva all'obiezione della rischiosità dei mutui. L'utilizzo dei derivati a quella degli effetti derivante dall'eventuale caduta dei prezzi. I mutui subprime sembravano essere un ottimo affare per tutti; i dirigenti delle banche, i cui compensi sono legati alle masse di titoli venduti, e i compratori dei titoli stessi che godevano di un rendimento elevato (a fronte di un altrettanto elevato rischio).
Abbiamo avuto modo di mostrare, che la crescita della domanda immobiliare era, inevitabilmente, legata all’arbitraria crescita della massa monetaria, accompagnata dai tassi di interesse straordinariamente e “forzatamente” bassi. Il livello del tasso di interesse (che è il fattore al quale si attualizza il valore dei beni presenti in funzione del valore stimato dei beni futuri), oltre che la crescente domanda di immobili che sosteneva il crescente livello dei prezzi, però non era dovuto a un aumentato livello del risparmio a scapito del consumo; inoltre, nella prima fase, non era accompagnato da una crescita del "costo di fabbricazione" altrettanto sostenuta. I livelli di profitto attesi, erroneamente giudicati alti, hanno attratto un numero sempre crescente di imprese, che hanno potuto utilizzare il credito a “basso costo” per acquisire i fattori produttivi a prezzi più elevati; dopo poco tempo l'offerta di immobili sul mercato superava di gran lunga la domanda (sostenuta solo dai mutui subprime).
Non essendo variato il tasso di preferenza temporale, i consumatori (compresi quelli operanti nel settore immobiliare, che hanno beneficiato di un maggior reddito nominale) hanno ristabilito la proporzione consumo-investimento precedente l’intervento monetario; la domanda torna a volgersi dai beni capitale a quelli di consumo. Dato che gli investimenti sono stati erroneamente deviati verso la produzione di beni capitali, invece che verso i beni di consumo richiesti dal mercato, il prezzo dei beni di consumo è spinto verso l’alto dall’eccesso di domanda. E’ l’inflazione dei prezzi.
Gli imprenditori, dal canto loro, indotti a investire troppo in beni capitali dall’erronea informazione trasmessa dal tasso di interesse, e opportunamente incoraggiati dall’espansione del credito a “pagare” i fattori produttivi a un prezzo maggiore si trovano costretti, dalla carenza di domanda, a dover vendere a prezzi inferiori rispetto ai costi stimati. Le imprese subiscono perdite e la bolla scoppia. Un caso esemplare!
Consegue che, contrariamente a quanto sostenuto da una delle prevalenti spiegazioni delle crisi economiche, non vi è alcuna “sovrapproduzione” o “carenza della domanda aggregata”. Semplicemente i prezzi di vendita sono scesi al di sotto dei costi di produzione per via delle errate indicazioni fornite dai tassi di interesse. Poiché la previsione dei prezzi di vendita futuri, è funzionale alla stima dei costi, è quest’ultima ad essersi rivelata errata a seguito del manifestarsi delle reali preferenze dei consumatori. In breve, la manipolazione del tasso di interesse e l’espansione del credito bancario, hanno deviato gli investimenti dalle preferenze del mercato. Rispetto ai bisogni dei consumatori, ne è derivata una sovrapproduzione di beni capitali (gli immobili) a fronte di una sottoproduzione di beni di consumo.  
Gli interventi di salvataggio "pubblico" e la partecipazione dei risparmiatori alle perdite generate dalle attività speculative hanno garantito, fin dall'inizio, il sistema finanziario.
Parallelamente, quest’assetto ha alimentato grazie alla finanza investimenti finanziari “rischiosi”. Potremmo definirlo "equilibrio artificiale dell'economia reale sostenuto da finanza creativa ovvero fraudolenta". Tale equilibrio ha retto per qualche tempo ma era destinato inevitabilmente a terminare con una rovinosa rottura.
Per cogliere lo storico affare delle case e per sostenere la domanda, e quindi la crescita del reddito di tutto il sistema economico USA, si è "acconsentito" e spinto in tutti i modi il complesso meccanismo dei mutui subprime. Si è verificato, in sostanza, quello che inevitabilmente succede al capitalismo quando questo assuma la versione "clientelare" e "lobbistica", quando il mercato è privato delle sue funzioni fondamentali e il governo degli interventi di aggiustamento degli squilibri distributivi e demografici è affidato a un sistema formale di "democrazia rappresentativa" che maschera un sistema di "oligarchia elettiva" che attraverso il controllo del sistema di comunicazione di massa impone quella che J. S. Mill definiva "la dittatura della maggioranza".
Il capitalismo, cioè, sostenuto dalle “politiche” di Reagan e dei Bush da un lato, di Thatcher e dai vari governi europei, non ultimo quello italiano di Berlusconi.

Nella terza parte di questo percorso, affronteremo la tematica relativa all'espansione dell'intervento dello Stato nell'economia, cercando di mostrare in che modo l'affermazione delle "intuizioni" keynesiane siano state forzatamente importate nel modello teorico del capitalismo "moderno", fino all'esplosione della crisi del Debito sovrano.


[1] L’analisi è estendibile a tutte le bolle speculative che si sono succedute negli ultimi decenni 

Le origini della crisi economica: Il capitalismo e la politica economica Dal New Deal di Hoover ad oggi

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